Il remote working «forzato» dall’emergenza Coronavirus probabilmente ha fatto mancare questi requisiti fondamentali che lo distingue dallo Smart Working:
- La mancanza di libertà, l’assenza scelta autonoma del collaboratore di aderire o meno all’iniziativa
- La probabile carenza di fiducia, non essendoci stata preparazione, i manager non sapevano come controllare i collaboratori
- La probabile insufficienza del lavoro per obiettivi e di Lavoro in Team, le persone che prima erano in un ufficio/reparto non è scontato che sapessero anche lavorare in un team virtuale
- La non compiuta digitalizzazione dei processi principali che investono il lavoro
- Cos’altro poteva mancare? Normative, accordi, strumenti informatici, ecc. ecc.
Molte persone hanno sperimentato comunque una specie di Smart Working ma comunque siamo stati in presenza di una possibile metabolizzazione negativa dell’esperienza associata allo Smart Working.
Vediamo che cosa dice l’articolo 96 del Decreto Rilancio del 13 maggio 2020, “Diritto al lavoro agile“:
- La modalità agile può essere implementata, anche in assenza degli accordi individuali, dai datori di lavoro privati a ogni rapporto di lavoro subordinato.
- La prestazione può essere svolta anche tramite strumenti informatici del dipendente se non sono forniti dal datore di lavoro.
- Resta fermo il rispetto degli obblighi informativi previsti dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81, anche ricorrendo alla documentazione resa disponibile sul sito dell’Istituto nazionale assicurazione infortuni sul
lavoro (INAIL). - Le aziende devono comunicare in via telematica al Ministero del Lavoro i nominativi dei dipendenti e la data di cessazione della prestazione di lavoro in modalità agile, utilizzando la documentazione già disponibile sul sito web del Ministero.
Il problema è quello di capire se questo Lavorare da casa, questo remote working.
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